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11 ottobre 2009 7 11 /10 /ottobre /2009 22:43

Poliziotti: ancora cittadini di serie B ? Gli indizi di una rimilitarizzazione strisciante.

 

In alcuni precedenti interventi su questa testata ho avuto modo di sottolineare, da una parte, come il sistema della sicurezza pubblica previsto dalla Legge 121/81 sia un sistema costoso, per certi versi pletorico (il più alto tasso di rapporto in Europa tra addetti alle diverse forze di polizia e cittadini) e, dall’altra  al tempo stesso, come questo sistema inefficiente sia stato anche produttivo di un arretramento delle retribuzioni conferite agli operatori (se comparate a quelle di altre maggiori realtà europee).

E’ ora solo il tempo di confortare, sia chiaro del tutto eufemisticamente, il lettore su come anche dal punto di vista dei diritti di libertà e del loro concreto esercizio il bilancio, dal punto di vista del cittadino-poliziotto, sia ancora tutt’altro che positivo.

Ma occorrerà andare con ordine.

Libertà sindacale.

La legge 121/81, quella legge che ha portato la riforma dell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza, ha concretizzato il diritto di ciascun appartenente alla Polizia di Stato di associarsi in sindacati ma al secondo comma dell’art. 82 – pur innanzi alla chiara ed esplicita previsione dell’art. 39 della Costituzione che dall’entrata in vigore continua a volere una forma organizzativa sindacale di tipo libero - ha introdotto il vincolo del divieto di aderire ad un’associazione sindacale con altri lavoratori impiegati in altri lavori e assumerne, dunque, la rappresentanza.

Cosicché oggi gli innumerevoli sindacati di Polizia, tutti costituiti da poliziotti, proprio in virtù di questa restrizione – come è intuibile - tendono a somigliare alle rappresentanze militari, a dei Cocer, oltre che ad avere la tendenza a porre in essere politiche di tipo corporativo piuttosto che spostare l’asticella verso l’alto, verso lotte di riforma.

 

Diritto di sciopero.

Il diritto di sciopero dell’art. 40 della Costituzione, seppur doverosamente regolamentabile come avviene per gli altri servizi pubblici essenziali, è addirittura inibito all’appartenente alla Polizia di Stato.

 

Diritto di partecipazione politica.

Dalla metà degli anni novanta non viene più reiterato, come avveniva, nella forma incostituzionale del decreto legge la possibilità, prevista dall’art. 98 comma 3° della Costituzione.

I lavoratori della Polizia di Stato, proprio perché smilitarizzati con l’entrata in vigore della legge n. 121 del 1981  come tutti i cittadini, avrebbero dovuto – in assenza di una esplicita previsione legislativa ordinaria in tal senso - godere del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (ex articolo 21 della Costituzione) e di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale (ex articolo 49 della Costituzione);  così come per ogni iscritto ad un partito anche a loro doveva essere garantita la piena vita statutaria e cioè la piena libertà di far avanzare le proprie idee e le proprie istanze all’interno e all’esterno dell’organizzazione politica a cui si è deciso di appartenere.

A complicare il quadro ci ha pensato, però, l’art. 81 della Legge 121/81 che con la sua formulazione poco chiara alimenta non pochi equivoci ed impone agli appartenenti alla Polizia di Stato,  di « mantenersi al di fuori delle competizioni politiche... e di svolgere propaganda a favore o contro partiti »; cosicché  - seppur non esclusa la possibilità di esercitare il diritto di elettorato passivo – un’interpretazione estensiva oltre il tenore letterale e quello sistematico (del tutto non improbabile in Italia) di tale disposto legislativo impedirebbe anche al privato cittadino che di mestiere fa il poliziotto (ma che non si propone all’opinione pubblica come appartenente alla Pubblica Amministrazione) persino di manifestare liberamente il proprio pensiero anche nei periodi di tempo situati al di fuori di quelli di campagna elettorale.

Ed  appare, infatti, del tutto paradossale non prevedere il divieto di iscrizione ai partiti politici e poi rendere l’iscritto che di professione fa il poliziotto all’interno del partito un mero convitato di pietra in attesa di essere cooptato per la composizione delle liste elettorali.

 

La rimilitarizzazione strisciante.

 

Come avevo già scritto che la legge 121/1981, seppur in modo parziale e tendenzialmente dunque esposta a rischi contro-riformatori, abbia apportato mutamenti rilevanti sul piano democratico per il Paese e per gli stessi appartenenti all’Amministrazione della Polizia di Stato è un dato di fatto indiscutibile.

Ma che sia in atto, e non da oggi con il governo dei “capaci di tutto” e con l’introduzione pressoché a sistema dell’impiego dei militari nelle città, anche nell’ordinamento della sicurezza una rimilitarizzazione strisciante è un altro dato che m’appare altrettanto indiscutibile: capace di minare dall’interno proprio quella “civilizzazione” voluta invece dalla Legge 121/81.

Ma il monopolio di questo processo non è solo di questo centrodestra.

A mettere, infatti, un primo tassello contro qualunque ipotesi di unificazione o coordinamento tra le due principali Forze di polizia ci pensò l’on. Dalema che con Legge 78/2000 conferì all’Arma dei Carabinieri il rango di quarta Forza Armata. Di fatto, in questo modo, non solo si accrebbe l’autonomia dei Carabinieri rispetto alle altre Forze di polizia ma si realizzò un’altra grave anomalia: “quella di essere l’unico Paese al mondo ad avere aggiunto una nuova dimensione di Forza Armata  a quelle di cielo, di mare e di terra”.

Esplicita controriforma – quest’ultima - che è aggravata dall’errore di aver previsto, proprio nella Legge 121/81, la permanenza nell’apparato di ben tre organizzazioni di tipo militare con funzioni di polizia (Carabinieri, Guardia di Finanza e all’epoca anche l’odierna Polizia Penitenziaria).

Tale pratica la si rinviene nella sopravvivenza all’eterna rincorsa ai riordini di carriera sganciati da ogni elemento d’effettiva professionalità che sono elemento costitutivo delle strutture militari; nella stessa direzione si inquadrano senz’altro le resistenze a riformare l’attuale regolamento di servizio e quello di disciplina che definirli vergognosi non è il peggio che si possa dire. Analogo discorso vale per la gestione della mobilità del personale che funziona forse peggio di quella ante-riforma.
Anche sul piano simbolico la persistenza dei cappellani militari in un’amministrazione che si vuole “civile”, gli alamari e i decori sempre più grandi e vistosi nelle divise degli “ufficiali”, le marce e i giuramenti a cui negli ultimi anni sono sottoposti persino i funzionari, a quale tipo di identità rispondono se non a quella militare?

E proprio il Governo Berlusconi del 2001-2006 con il consenso quasi unanime dell’opposizione è riuscito, all’insaputa del paese, a porre un altro macigno sulla strada dell’effettiva smilitarizzazione. Faccio riferimento alla legge che nel luglio 2004 abolendo la leva obbligatoria ma anche il concorso pubblico con accesso diretto dalla vita “civile”, ha stabilito anche che per entrare a far parte di una delle Forze di polizia (compresi i Vigili del Fuoco!) è indispensabile, per l’aspirante, il requisito dell’aver prestato almeno il servizio di leva volontaria per almeno un anno consecutivo in una delle Forze Armate.

Ci sarebbe da comprendere che - come per la democrazia, lo stato di diritto e libertà anche per una riforma che portasse definitivamente maggiori libertà e diritti democratici all’interno della Polizia di Stato come non ha fatto la Legge 121 del 1981- nulla si può considerare acquisito per sempre.

 

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