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23 agosto 2009 7 23 /08 /agosto /2009 14:40

Desidero entrare, grazie al consenso della segreteria provinciale Siap, in punta dei piedi nel dibattito sulla cosiddetta sicurezza che si è intensificato anche a Piacenza da quando si è avviato l’impiego dei militari nelle strade cittadine.

Avrò bisogno, purtroppo, di spazio per non cadere nella – facile – tentazione di eludere le questioni di merito, rispondendo con aforismi ad aforismi, con semplificazioni a semplificazioni; intervengo cioè alimentando la speranza di  poter innestare un dialogo serio, profondo e senza  banalità non basato  solo sui numeri e sulle statistiche.

Oltre alle posizioni sino ad ora sostenute in linea con la Segreteria nazionale Siap,  voglio rilanciare tentando di rinforzare alcuni principi apparentemente dimenticati da chi avrebbe il compito e il dovere di formare le regole della convivenza civile.  

Perché ho parlato di “cosiddetta sicurezza” ? Perché credo, fermamente, che essa in quanto tale non è da considerarsi un paradigma assoluto e, stante, la sua mancata previsione nella parte prima della nostra Costituzione non rappresenta altro, in un determinato momento storico, che il grado di fruizione dei diritti di libertà individuali, questi sì costituzionalmente sanciti e regolati, da parte dei cittadini.

La prima  - la sicurezza - è e deve rimanere necessariamente un mezzo pubblicamente organizzato - ma i secondi ne rappresentano il fine, fondamentale, attraverso il quale valutarne la coerenza e la giustezza.

Perché c’è da ricordarlo: proprio l’inversione di questo rapporto - cioè quando il fine viene scambiato con il mezzo e la sicurezza diviene un paradigma comunicativo ed antropologico unico ed ossessivo  - si è palesata la premessa teorica e, poi, pratica delle esperienze illiberali e dittatoriali, di ogni colore, del secolo scorso.

Ecco perché accedo difficilmente a considerare le strategie sulla sicurezza senza pensarle, sempre, proiettate sullo sfondo della funzione storica ed ontologica della Legge e dei principi costituzionali e cioè quella di costituire un baluardo nei confronti di chi, rappresentante dello Stato o cittadino, si trova ad esercitare un qualsivoglia potere di diritto o di fatto.

A dimostrazione che le cose stanno in modo più complesso a come qualcuno cerca di descriverle  in questi giorni, noi del Siap di Piacenza organizzammo, non a caso, un convegno in cui il termine sicurezza era parte di un trinomio assieme a Legalità e Giustizia.

Non mi appare, solo, la questione di una statistica migliore o meno, che può accendere i riflettori e appassionare – come fu già negli anni settanta - sull’ordinamento, sull’organizzazione e sulla vita  della pubblica sicurezza (e dei suoi uomini e delle sue donne) e sul suo concorso alla complessa macchina volta, in definitiva - assieme ad altri - alla prevenzione di fatti dannosi per la vita e la libertà dei cittadini e, di più, la rieducazione del cittadino ritenuto colpevole.

Rifuggire ogni strategia polemica di tipo sostanzialista per andare verso il richiamo alla compattezza storica che dovrebbe riconoscersi al formalismo costituzionale non mi impedisce – anzi mi impone -però di sottolineare il rischio, se vogliamo banale ma sottile, che si insinua nell’enfatizzazione della “normalità”, della quotidianità, apparentemente rassicurante, del militare – magari con sempre maggiori responsabilità - che si occupa di “sicurezza interna”.

Qui non si tratta di criticare lo sforzo profuso in questi giorni da donne e uomini con le stellette – non lo abbiamo mai fatto -  ma cercare da una parte a difendere la professionalità dei poliziotti preparati e formati per un modello di sicurezza democratica e civile e, dall’altra,  non smettere di rammentare come il male, la sua metamorfosi, come ci insegna Hannah Harendt, può essere anche banale così come la damnatio memoriae a cui sembra essere condannato questo paese.

Proprio nel tragico e difficile periodo del terrorismo, infatti, si prese atto, in Parlamento e fuori da esso, che piccoli e grandi errori, piccoli e grandi scandali e violenze ed eccessi all’interno dei corpi armati dello Stato, ad ordinamento militare, potevano essere vinti solo riformandoli.

Portare la democrazia - che la Costituzione repubblicana aveva portato nella nostra società – anche all’interno di questi corpi - attraverso la sindacalizzazione, la civilizzazione, la possibilità di discutere all’interno a partire dall’ordine illegittimo o non eseguire quello manifestamente reato, la valorizzazione delle funzioni piuttosto che di una gerarchia sterile ed autoreferenziale -   che invece fino ad allora vivevano una vita separata e regolata da leggi e regolamenti di epoca monarchica o fascista e per lo più antecedenti all’entrata in vigore del testo costituzionale, ha costituito per il legislatore di allora, seppur con un’opera che ritengo tuttora parziale ed oggi proprio perché parziale ci si accorge forse quanto controproducente, il modo di consegnare all’Italia la professionalità  di un sistema democratico che, proprio perché tale, fosse la proiezione anche interna del dialogo e del confronto civile (che nel lungo periodo migliorano ed arricchiscono).

Maggiori diritti e libertà – e dunque il loro esercizio responsabile - ai lavoratori di polizia e la “rimozione” dei fattori di discriminazione e di emarginazione rispetto agli altri cittadini, avrebbero  costituito il concorso utile a sconfiggere il terrorismo e lo stato di emergenza che il terrorismo voleva imporre al paese con la forza – ordinaria – del diritto, della Costituzione e della legalità.

Così si arrivò alla riforma del 1981 che, però - a dirla tutta - sembra essere messa in discussione da più parti, in particolar modo nell’ultimo periodo.

Oggi occorrerebbe, a parer mio, invece rilanciare i temi civili di democratizzazione, non corrisposti anche da taluni nel dialogo piacentino di queste ore, che sono quelli di sempre, rimasti irrisolti dall’agenda setting parlamentare sin dalla Prima Repubblica: quelli dell’unificazione delle cinque forze di polizia nazionali e di riforma dell’azione penale a fronte dei milioni di processi pendenti  e delle decine di migliaia di prescrizioni all’anno, dell’eventuale riforma del diritto penale sostanziale verso uno di tipo minimo conoscibile e conosciuto, di quella dell’ordinamento penitenziario e dei circuiti alternativi per le pene più lievi.

Rilanciare questi temi per l’elaborazione di riforme organiche senza magari cadere nelle palesi contraddizioni dettate dall’emergenzialismo, attraverso i continui pacchetti sicurezza,  che si intravedono nella coesistenza di un centralismo ossessivo realizzato con l’impiego pure dei militari assieme all’introduzione di un “federalismo all’italiana” con l’improvvisazione delle ronde volontarie. 

 

*Michele Rana – membro del Direttivo Siap di Piacenza.

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